Una
settimana di viaggio di studio per una quindicina di manager nel tempio dell’innovazione.
Senza sosta
sono stati gli incontri, tutti stimolanti e ricchi di contenuto, e molti gli
spunti che portiamo a casa.
Anzitutto
storie di vita: gli occhi di questi ragazzi italiani che ce l’hanno fatta: ingegneri
trentenni che lavorano a Google , Apple o ancora che dopo una esperienza di startappari come dicono qui (idee
brillanti che diventano start-up d’impresa con l’aiuto di venture capitalist),
hanno fatto l’exit, ovvero hanno
venduto e ora fanno i paperoni, continuando a lavorare nell’azienda o
preparandosi a divenire imprenditori
seriali, generatori di galassie di start-up
che illuminano la vallata a mezz’ora da San Francisco della luce della gioventù,
del coraggio del “provaci almeno”.
Così
incontriamo Andrea PHD del Politecnico
di Torino che lavora in Google e che ci dice che lo svantaggio dell’Italia è la
rigidità del mercato del lavoro, il non poter licenziare(!!), a Giovanni che
per gioco appena ventenne ha mandato alcune sue applicazioni ad Apple per essere
subito assunto e ora, dopo sette anni, decidere di uscire (con una buona liquidazione di stock
options) per provare anche lui a fare il grande salto. Quando chiediamo loro
che cosa ne pensano delle università italiane che li hanno “sfornati”
dimostrano un debito di riconoscenza ma mettono il dito sulla piaga principale:
la mancanza di passione in primis nei docenti.
Qui fare
l’imprenditore, avviare una start-up è un fattore culturale in un mondo dove il
fallimento non è una sconfitta ma una “working esperience”, dove gli insoluti
sono inferiori al 5%, dove tutti pagano con la carta di credito ma quando si
tratta di finanziare la start-up ti arriva a casa l’assegno che ti cambia la
vita.
Qui il
discorso di Steve Jobs a Stantford diventa ridente realtà, come la sua tomba bianca,
il nuovo tablets, il negozio del centro.
A finanziare
i sogni dei geni tecnologici ci sono i venture capitalist. Anche tra loro
troviamo il giovane Pietro che lavora per una società che gli ha affidato il
compito di capire dalle prime dieci righe di un business plan – e ne arrivano a
centinaia – se vale la pena approfondire. Ci spiegano che quello che vale è l‘idea
ma non solo, anche e soprattutto il gruppo, le esperienze e, ovviamente, il prodotto
e il suo potenziale mercato.
Qui c’è
tutto: soldi, cervelli (anche se gli ingegneri mancano anche qui) e i contatti
giusti. E’ possibile chiedere un’opinione – e avere tempestiva risposta – ad un
big del settore che con l’umiltà di un ventenne ti riceve anche il giorno dopo.
E’ un
ecosistema da invidiare dove il big ben lo fa l’università, popolata da
professori ex imprenditori o da venture capitalist o da ex imprenditori
seriali, in un continuo scambio di ruoli che non ricorda alcun esempio
italiano.
E infine il
mega manager internazionale che dopo vent’anni di azienda si diverte come CEO di
un start-up dall’idea molto promettente e che utilizza programmatori israeliani
nel loro Paese, mentre Funambol ha lasciato in Piemonte i cervelli e qui tiene
la finanza e il marketing.
Se in Italia
tutto questo non si può fare ci consoliamo pensando che qui la comunità
italiana si sta rafforzando per aiutare le imprese a sbarcare nella Silicon
come piattaforma per il mercato Wordwild. Ed ecco le realtà di Mind the Bridge,
M31 e BAIA pronte ad interpretare un nuovo patriottismo che non piange su cio’
che non si può fare ma che ha un solo motto: “THINK BIG!!!”
Paola Mainardi
Paola Mainardi